Una storia di salvazione e di annientamento, quella di Moshe Zeiri; una vicenda umana ed esistenziale; un percorso di dolore estremo e di redenzione che intreccia inesorabilmente tragedie e rinascite, orrori e ideali, disperazione e riscatto, con tutta la sua irriducibile complessità e le sue contraddizioni.

Una storia che può dire tanto all’attuale contesto geopolitico di fragili equilibri sociali, riemergenti negazionismi e identità disperse.

 
 

Moshe Zeiri, giovane ebreo galiziano, militante sionista di Gordonia, che aveva lasciato il mondo antico e stantio dello shtetl in lingua yiddish per inseguire il sogno della rigenerazione ebraica in Palestina, risale l’Italia, volontario nella British Army a partire dal 1942, all'indomani della Liberazione, dal 1945 in poi raccoglie in quella che era chiamata “la casa di Mussolini”, a Selvino, su un altipiano laterale della Val Seriana, ventidue chilometri da Bergamo e settanta da Milano, gli “Orfani della Shoah”, «per restituire un ritmo e un calore ai loro cuori congelati» e per prepararli alla aliyah, alla risalita alla Terra Promessa, secondo il modello dell’ebreo nuovo, combattente, vigoroso, sicuro di sé. Per trasformare la loro salvazione individuale in redenzione collettiva.

Bambini e ragazzi delle più varie provenienze (ebrei lituani o galiziani, boemi o ungheresi, russi o romeni) orfani in fuga dalla deportazione, dalla morte, dall’orrore, dalla devastazione. Bambini fuori posto, dalla vita sospesa, che si portano dietro l’intera gamma di tragedie della Soluzione finale - le tragedie dello sterminio, ma anche quelle della sopravvivenza - : la liquidazione dei ghetti, la selezione per le camere a gas, le marce della morte, ma anche la vita randagia nelle foreste, la conversione forzata in conventi o famiglie cristiane, la violazione dei corpi, il senso di colpa del superstite quotidianamente chiamato a interrogarsi sul perché della propria salvazione e dell’altrui sommersione.

Bambini cui viene chiesto di gettare alle spalle la propria identità di ebrei della diaspora, smunti, cerebrali, imbelli, e di rinascere come ebrei muscolosi e combattivi. Perché la liberazione dalla Shoah non è un evento puntuale ma un faticoso processo, «qualcosa da vivere nel tempo, con pazienza, come si pazienta per una guarigione».

Una storia che Sergio Luzzatto ha ricostruito in tutta la sua essenzialità, senza abbellimenti e riduzioni, combinando i frammenti di una memoria fatta di fotografie, lettere, dati archivistici, fonti giornalistiche, reperti e voci vive nel suo libro I bambini di Moshe (Giulio Einaudi editore), e che racconterà mercoledì 28 febbraio, alle ore 18.00, nella sala conferenze dell’Archivio di Stato di Genova, in dialogo con Wlodek Goldkorn, ex responsabile culturale dell’Espresso, e Danco Singer, direttore del Festival della Comunicazione e fondatore di Frame.

Molteplici sono le vite (e i temi) che si aggregano lungo questo asse biografico, compreso fra i due poli geografici e simbolici della Polonia da un lato e del nascente Stato d’Israele dall’altro: la ribellione dei giovani contro l’inadeguatezza degli adulti, l’anabasi dalla Shoah delle cose, l’irrimediabile spaccatura generazionale, il prezzo della rinascita, la cruda realtà del Medio Oriente palestinese dove un movimento ebraico di liberazione è votato a scontrarsi con un movimento arabo di liberazione, la contraddizione di vittime che generano altre vittime. Paradossi e antinomie che si riverberano sul presente e con cui l’Europa sta ancora facendo i conti. Il dialogo sarà preceduto da un saluto introduttivo di Annalisa Rossi, Direttore dell'Archivio di Stato di Genova.