Episodi
1976, Vittorio Occorsio - PARTE 1
Un "giudice pericoloso" che cercava "la verità della verità"
Lo stesso giorno del disastro ambientale di Seveso, il 10 luglio 1976, viene ucciso a Roma con 32 colpi di mitra il magistrato Vittorio Occorsio. L'autore materiale dell'omicidio, reo confesso, verrà arrestato nel febbraio 1977: è Pier Luigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo. Per una volta tutto appare chiaro: c'è un morto, c'è l'autore dell'omicidio, c'è un plausibile movente di evidente matrice neofascista. Ma chi era il giudice Occorsio? E perché fu ucciso? Romano, classe 1929, Vittorio Occorsio era un ottimo magistrato, un buon padre di famiglia e un uomo solare e sicuro di sé.
Per aver rinviato a giudizio in qualità di pubblico ministero Pietro Valpreda, entrò nel mirino degli anarchici e, scovando sospette infiltrazioni neo-fasciste nel gruppo degli anarchici, riuscì inimicarsi anche il terrorismo nero, e un personaggio come Stefano delle Chiaie, in contatto con i servizi segreti. Quando fu ucciso, il magistrato stava lavorando alle indagini di una serie di sequestri di persona avvenuti nella Roma del 1975 e la sua pista portava da più parti inequivocabilmente a punti di contatto con Licio Gelli e la P2.
1976, Vittorio Occorsio - PARTE 2
Un "giudice pericoloso" che cercava "la verità della verità"
Lo stesso giorno del disastro ambientale di Seveso, il 10 luglio 1976, viene ucciso a Roma con 32 colpi di mitra il magistrato Vittorio Occorsio. L'autore materiale dell'omicidio, reo confesso, verrà arrestato nel febbraio 1977: è Pier Luigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo. Per una volta tutto appare chiaro: c'è un morto, c'è l'autore dell'omicidio, c'è un plausibile movente di evidente matrice neofascista. Ma chi era il giudice Occorsio? E perché fu ucciso? Romano, classe 1929, Vittorio Occorsio era un ottimo magistrato, un buon padre di famiglia e un uomo solare e sicuro di sé.
Per aver rinviato a giudizio in qualità di pubblico ministero Pietro Valpreda, entrò nel mirino degli anarchici e, scovando sospette infiltrazioni neo-fasciste nel gruppo degli anarchici, riuscì inimicarsi anche il terrorismo nero, e un personaggio come Stefano delle Chiaie, in contatto con i servizi segreti. Quando fu ucciso, il magistrato stava lavorando alle indagini di una serie di sequestri di persona avvenuti nella Roma del 1975 e la sua pista portava da più parti inequivocabilmente a punti di contatto con Licio Gelli e la P2.
1979, Giorgio Ambrosoli - PARTE 1
L'avvocato che sfidò il banchiere
Nell'Italia di fine anni 70, funestata dal terrorismo e dalla corruzione, l'avvocato Giorgio Ambrosoli viene incaricato come liquidatore fallimentare della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il potente banchiere siciliano acclamato come "salvatore della lira" dallo stesso Andreotti. Riuscì, anno dopo anno, a trasformare un esercizio contabile in un'attività investigativa: giorno dopo giorno, in 5 anni, l'avvocato era riuscito a penetrare i meccanismi segreti dell'impero economico-finanziario di Sindona svelandone le magagne ma, mentre la magistratura e la Banca d'Italia lavoravano per contestare i suoi reati, veniva portato avanti (sotto il patrocinio di altissime autorità governative) un progetto per salvare la sorte del banchiere.
Dalle telefonate intimidatorie si passò alle minacce, e dalle minacce ai fatti: proprio la sera prima del giorno in cui avrebbe dovuto firmare il verbale decisivo per l'accusa di Sindona, l'11 luglio del 1979, Ambrosoli fu ucciso in un agguato. Fu arrestato il killer William Joseph Arico, e una sentenza di condanna colpirà nel 1986 anche il suo mandante: proprio lui, il banchiere Michele Sindona, dietro il quale si nascondono, come si evincerà dalle indagini giudiziarie, poteri di eccezionale levatura, legali e illegali: il presidente del Consiglio Andreotti, Licio Gelli, alla testa della loggia massonica P2 e la fazione di Cosa Nostra che fa capo a Stefano Bontate.
1979, Giorgio Ambrosoli - PARTE 2
L'avvocato che sfidò il banchiere
Nell'Italia di fine anni 70, funestata dal terrorismo e dalla corruzione, l'avvocato Giorgio Ambrosoli viene incaricato come liquidatore fallimentare della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il potente banchiere siciliano acclamato come "salvatore della lira" dallo stesso Andreotti. Riuscì, anno dopo anno, a trasformare un esercizio contabile in un'attività investigativa: giorno dopo giorno, in 5 anni, l'avvocato era riuscito a penetrare i meccanismi segreti dell'impero economico-finanziario di Sindona svelandone le magagne ma, mentre la magistratura e la Banca d'Italia lavoravano per contestare i suoi reati, veniva portato avanti (sotto il patrocinio di altissime autorità governative) un progetto per salvare la sorte del banchiere.
Dalle telefonate intimidatorie si passò alle minacce, e dalle minacce ai fatti: proprio la sera prima del giorno in cui avrebbe dovuto firmare il verbale decisivo per l'accusa di Sindona, l'11 luglio del 1979, Ambrosoli fu ucciso in un agguato. Fu arrestato il killer William Joseph Arico, e una sentenza di condanna colpirà nel 1986 anche il suo mandante: proprio lui, il banchiere Michele Sindona, dietro il quale si nascondono, come si evincerà dalle indagini giudiziarie, poteri di eccezionale levatura, legali e illegali: il presidente del Consiglio Andreotti, Licio Gelli, alla testa della loggia massonica P2 e la fazione di Cosa Nostra che fa capo a Stefano Bontate.
1980, Piersanti Mattarella - PARTE 1
La guerra a Cosa Nostra
È il 6 gennaio 1980 quando in via Libertà, nella Palermo liberty si consuma l'omicidio di Piersanti Mattarella, giovane e promettente presidente della Regione Sicilia. Un delitto efferato consumato sotto gli occhi dei figli e della moglie, che il «Corriere della sera» titola come “il più grave delitto politico dopo il caso Moro: l'ombra della mafia o del terrorismo dietro al killer”.
La carriera professionale e politica di Mattarella segue la travagliata sorte della vita politica della Sicilia: dal sacco di Palermo, al discusso processo Dolci, ai contrastati rapporti con Cosa Nostra, all'isolamento politico voluto dagli andreottiani Ciancimino e Lima, fino al tragico rapimento e omicidio di Moro, la cui scomparsa segnò la fine del sostegno da parte del governo e dalla DC. Tuttavia egli andò avanti per la sua strada con integrità e rettitudine, consapevole che i suoi atti amministrativi avrebbero rotto il quieto vivere di Cosa Nostra. Da subito sull'effettiva natura dell'assassinio di Mattarella si affacciarono due ipotesi diverse: accanto all'evidente matrice mafiosa, si ipotizzarono come mandanti altre forze e poteri occulti.
1980, Piersanti Mattarella - PARTE 2
La guerra a Cosa Nostra
È il 6 gennaio 1980 quando in via Libertà, nella Palermo liberty si consuma l'omicidio di Piersanti Mattarella, giovane e promettente presidente della Regione Sicilia. Un delitto efferato consumato sotto gli occhi dei figli e della moglie, che il «Corriere della sera» titola come “il più grave delitto politico dopo il caso Moro: l'ombra della mafia o del terrorismo dietro al killer”.
La carriera professionale e politica di Mattarella segue la travagliata sorte della vita politica della Sicilia: dal sacco di Palermo, al discusso processo Dolci, ai contrastati rapporti con Cosa Nostra, all'isolamento politico voluto dagli andreottiani Ciancimino e Lima, fino al tragico rapimento e omicidio di Moro, la cui scomparsa segnò la fine del sostegno da parte del governo e dalla DC. Tuttavia egli andò avanti per la sua strada con integrità e rettitudine, consapevole che i suoi atti amministrativi avrebbero rotto il quieto vivere di Cosa Nostra. Da subito sull'effettiva natura dell'assassinio di Mattarella si affacciarono due ipotesi diverse: accanto all'evidente matrice mafiosa, si ipotizzarono come mandanti altre forze e poteri occulti.
1980, Walter Tobagi - PARTE 1
La libertà di informazione e la ricerca della verità
Un uomo, un padre, un giornalista. Coraggioso, amante della verità, ma tutt'altro che un uomo d'azione. Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera, si trovò infatti, suo malgrado, a vivere gli ultimi mesi della sua vita in preda alla paura. Tobagi era troppo acuto per non capire sotto quale minaccia vivesse: sapeva di essere al centro del mirino del terrorismo rosso da quando, nel 1978, era divenuto presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, difendendo la libertà di informazione e la necessità di non piegarsi ai ricatti del terrore. E pagò con la morte questa sua tenacia,cadendo vittima dei terroristi della Brigata XXVIII marzo il 28 maggio del 1980.
Il "Tobagino", così lo chiamavano i colleghi più anziani dell' "Avvenire", si fece conoscere già da subito per la sua limpida professionalità. A soli ventinove anni approdò al “Corriere della sera” e nel frattempo crebbe il suo impegno nel sindacato dei giornalisti a favore della libertà di stampa. Contemporaneamente aveva iniziato a indagare sulla scalata al “Corriere della Sera” da parte del gruppo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e di quella che poi si sarebbe scoperta essere la loggia P2. E finì così per trasformarsi in un personaggio scomodo. Le indagini per arrivare alla cattura degli assassini di Tobagi furono rapide ed efficaci: il nucleo di carabinieri del generale Dalla Chiesa arrestò Marco Barbone; subito dopo furono catturati i complici. Ma il processo, se da un lato portò alla condanna dei sei imputati, dall'altra però portò tra lo sgomento dei familiari alla immediata scarcerazione di Barbone e del suo complice Morandini per "l'eccezionale valore del loro pentimento".
1980, Walter Tobagi - PARTE 2
La libertà di informazione e la ricerca della verità
Un uomo, un padre, un giornalista. Coraggioso, amante della verità, ma tutt'altro che un uomo d'azione. Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera, si trovò infatti, suo malgrado, a vivere gli ultimi mesi della sua vita in preda alla paura. Tobagi era troppo acuto per non capire sotto quale minaccia vivesse: sapeva di essere al centro del mirino del terrorismo rosso da quando, nel 1978, era divenuto presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, difendendo la libertà di informazione e la necessità di non piegarsi ai ricatti del terrore. E pagò con la morte questa sua tenacia,cadendo vittima dei terroristi della Brigata XXVIII marzo il 28 maggio del 1980.
Il "Tobagino", così lo chiamavano i colleghi più anziani dell' "Avvenire", si fece conoscere già da subito per la sua limpida professionalità. A soli ventinove anni approdò al “Corriere della sera” e nel frattempo crebbe il suo impegno nel sindacato dei giornalisti a favore della libertà di stampa. Contemporaneamente aveva iniziato a indagare sulla scalata al “Corriere della Sera” da parte del gruppo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e di quella che poi si sarebbe scoperta essere la loggia P2. E finì così per trasformarsi in un personaggio scomodo. Le indagini per arrivare alla cattura degli assassini di Tobagi furono rapide ed efficaci: il nucleo di carabinieri del generale Dalla Chiesa arrestò Marco Barbone; subito dopo furono catturati i complici. Ma il processo, se da un lato portò alla condanna dei sei imputati, dall'altra però portò tra lo sgomento dei familiari alla immediata scarcerazione di Barbone e del suo complice Morandini per "l'eccezionale valore del loro pentimento".
1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa - PARTE 1
Il generale e la sfida al potere corrotto
Il 3 settembre 1982 il generale Dalla Chiesa fu ucciso a Palermo insieme alla sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Fu un omicidio efferato che immediatamente divise l'opinione pubblica anche in merito ai suoi mandanti: il generale era diventato un obiettivo focale perché fu da tutti identificato come l'unico che poteva combattere il terrorismo e la mafia. Tuttavia da sempre la famiglia, e in particolare il figlio Nando, lo definì un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Sul coinvolgimento della politica e della DC non aveva dubbi e lo scontro tra i familiari di Dalla Chiesa e Giulio Andreotti andò avanti infiammandosi sempre di più.
Ma perché il generale Dalla Chiesa fu ucciso? Di certo era una personalità ingombrante e dal carattere risoluto: nella sua carriera aveva collezionato ostilità nella lotta al terrorismo sia rosso che nero. Era ben noto a Cosa Nostra ancor prima di arrivare a Palermo e la mafia gli stava preparando la "giusta accoglienza". Ma la sua figura era invisa anche al mondo della politica corrotta fin da quando, come verrà fuori molti anni dopo dalla testimonianza del pentito Buscetta, aveva affiancato il giornalista Mino Pecorelli, anch'egli assassinato, nel ritrovamento di importanti indizi in merito all'omicidio Moro che "infastidivano" l'onorevole Andreotti e l'allora europarlamentare Francesco Cosentino. Se è vero che Dalla Chiesa fu ucciso da Cosa Nostra, è altrettanto vero che la mano fu armata da altri e più alti poteri.
1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa - PARTE 2
Il generale e la sfida al potere corrotto
Il 3 settembre 1982 il generale Dalla Chiesa fu ucciso a Palermo insieme alla sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Fu un omicidio efferato che immediatamente divise l'opinione pubblica anche in merito ai suoi mandanti: il generale era diventato un obiettivo focale perché fu da tutti identificato come l'unico che poteva combattere il terrorismo e la mafia. Tuttavia da sempre la famiglia, e in particolare il figlio Nando, lo definì un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Sul coinvolgimento della politica e della DC non aveva dubbi e lo scontro tra i familiari di Dalla Chiesa e Giulio Andreotti andò avanti infiammandosi sempre di più.
Ma perché il generale Dalla Chiesa fu ucciso? Di certo era una personalità ingombrante e dal carattere risoluto: nella sua carriera aveva collezionato ostilità nella lotta al terrorismo sia rosso che nero. Era ben noto a Cosa Nostra ancor prima di arrivare a Palermo e la mafia gli stava preparando la "giusta accoglienza". Ma la sua figura era invisa anche al mondo della politica corrotta fin da quando, come verrà fuori molti anni dopo dalla testimonianza del pentito Buscetta, aveva affiancato il giornalista Mino Pecorelli, anch'egli assassinato, nel ritrovamento di importanti indizi in merito all'omicidio Moro che "infastidivano" l'onorevole Andreotti e l'allora europarlamentare Francesco Cosentino. Se è vero che Dalla Chiesa fu ucciso da Cosa Nostra, è altrettanto vero che la mano fu armata da altri e più alti poteri.