La porta sbagliata. Controstoria dell'economia italiana dal fascismo ad oggi

Un podcast di

Ritratto di Federico Fubini

Federico Fubini

Federico Fubini, giornalista, autore, osservatore della società contemporanea e cronista dei grandi eventi della crisi finanziaria e della pandemia per le pagine di Repubblica e del Corriere della Sera, accompagna gli ascoltatori in un viaggio nella parabola dello sviluppo italiano degli ultimi novant'anni, a partire dalla risposta del regime fascista alla Grande depressione fino ai nostri giorni. L'intero percorso è un'indagine alla ricerca di indizi sulle radici, le cause e le strutture psicologiche e sociali del paese che possano fare luce sul presente che viviamo. Non è solo un percorso nella storia dell'economia, ma anche della cultura e della psicologia italiane, collegate all'economia da fili sotterranei, che a volte restano nell'ombra ma che Federico cerca di riportare alla luce.

Lo scopo della serie è porre e cercare di rispondere ai grandi interrogativi dei nostri anni: perché un Paese come l'Italia, dotato di storia, cultura, bellezza, talento, spirito imprenditoriale, di una moneta di riserva internazionale, con libero accesso ai mercati internazionali e con una solida rete di alleanze ha smesso di crescere negli ultimi trent'anni? C'è qualcosa di inadeguato nella nostra società, qualcosa che è andato storto nel passaggio da una generazione all'altra negli ultimi decenni? Com'è possibile che, mentre tutto cambia intorno a noi, l'Italia rimanga ferma, come prigioniera di un incantesimo che la condanna a non crescere più? Una serie podcast per cercare di gettare un po' di luce su questo vero e proprio mistero che coinvolge tutti noi e per ripartire con uno spirito nuovo.

Episodi

1. La defascistizzazione del Paese e il Piano Marshall: miti e realtà

Nell'Italia dei nostri giorni, nelle sue istituzioni e convenzioni della vita economica, non è difficile trovare ancora strutture che hanno origine nel periodo fascista (anche se non vengono neanche più percepite come tali). Federico Fubini inizia il suo racconto a partire dal discorso di Mussolini al Consiglio delle Corporazioni nel 1933. Il duce parla a un paese provato dalla Grande depressione, un paese in gran parte contadino ed impoverito dalla crisi. Parla come un no global dei nostri giorni che rifiuta il mercato e gli scambi internazionali. Parla come un populista di oggi che si oppone all'omologazione dei gusti e dei costumi derivante dalla produzione industriale su larga scala e propone un modello diverso: l'interventismo di Stato nelle imprese e il corporativismo nella società come strumenti per controllare il settore produttivo, ridurre al minimo la concorrenza e centralizzare il controllo di prezzi, salari e regole. Era un modello coerente con la dittatura. Ma in democrazia, nel dopoguerra, quelle istituzioni economiche sono sopravvissute diramandosi fino ai nostri giorni.

2. Il miracolo economico senza retorica

L'Italia all'indomani della guerra è economicamente debole e politicamente umiliata dalla disfatta. Eppure negli anni dal '48 alla fine degli anni '60 attraversa quel periodo di rinascita che chiamiamo "miracolo economico". Fubini ne ripercorre le tappe, riconoscendo aspetti che, in verità, hanno poco di miracoloso e in cui non mancano errori di valutazione, come quello dello stesso Luigi Einaudi che ripropone un modello di austerità e dell'allora presidente di Confindustria che si mostra poco fiducioso nella potenzialità produttiva dell'industria italiana. Perfino i comunisti accusano la stessa miopia votando nel '57 contro il Trattato sulla CEE.
Nonostante tutto, però, l'Italia si mette in moto, copiando dalle tecnologie estere, producendo a basso costo, e facendo affidamento su un Piano Marshall che vale solo il 2% del Pil. E pur con una profonda sfiducia nei confronti dell'imprenditoria privata (come dimostra il caso Olivetti), l'Italia percorre la sua parabola che la porta ad una crescita del 5% del reddito medio. Ma l'Italia non si può adagiare: la discesa è dietro l'angolo, bisogna innovare.

3. Quegli intellettuali che rimossero la propria gioventù

Nel passaggio dalla dittatura alla democrazia numerosi italiani di spicco passarono da un regime all'altro con grande disinvoltura. Si pensi a Indro Montanelli, autore de "Il buonuomo Mussolini", ad Amintore Fanfani, firmatario del "Manifesto della razza" o a Gaetano Azzariti, secondo presidente nella storia della Corte Costituzionale che era stato presidente del Tribunale della razza. Per non parlare del passato fascista "dimenticato" da un gran numero di intellettuali di sinistra: Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Norberto Bobbio, Dario Fo e molti altri.

La rimozione dei percorsi personali e il processo di "dolcificazione" della realtà del fascismo, al quale proprio Montanelli dette un contributo decisivo, ha favorito molte omissioni e consentito a molti ex fascisti di avere una carriera politica, culturale o burocratica nell'Italia del dopoguerra. Non c'è niente di male in sé: cambiare idea è legittimo; ed è inevitabile che nelle transizioni una parte del ceto dirigente del vecchio sistema filtri nel nuovo.

Ciò che però distingue l'Italia dalla Germania, per esempio, è l'opacità. Nessuno di questi personaggi ha mai fatto i conti con le proprie scelte di gioventù, nessuno le ha mai raccontate in maniera onesta; di tutti si sono sapute le compromissioni solo quando altri le hanno scoperte decenni più tardi. E anche allora le spiegazioni dei grandi intellettuali sono state lacunose.

Fubini ci aiuta a capire perché questa ambiguità è gravata sul percorso dell'Italia repubblicana. A differenza della Germania, il paese non ha fatto i conti con il totalitarismo. Non essendosi defascistizzata fino in fondo, l'Italia repubblicana ha dunque continuato a temere sempre nuove insorgenze di autoritarismo. E non riuscendo a battere culturalmente il proprio passato, ha cercato di invalidarlo impedendo a qualunque leader di assumere reale forza politica. Si sono create così le condizioni per governi deboli, che condannano spesso il paese alla paralisi.

4. La trappola del reddito medio e la "porta sbagliata"

La storia italiana del '68 è una storia di proteste e disordini, come nel resto d'Europa. La rivolta operaia del 1969 è invece un evento che distacca il paese dai suoi pari in Europa, per la durezza dello scontro e per le risposte che furono trovate a partire da quell'anno. L'Italia in quegli anni ha appena attraversato la trasformazione sociale e industriale più veloce nella storia di centinaia di generazioni. Ma l'aver raggiunto lo status di economia avanzata rende necessarie nuove strategie che non siano semplicemente la competitività grazie al basso costo del lavoro o l'imitazione delle tecnologie straniere. Un paese maturo non può crescere con le stesse ricette che ne avevano fatto la fortuna quando ancora era un'economia emergente. I lavoratori reclamano comprensibilmente diritti e garanzie, il paese inizia a essere scosso dal terrorismo di destra e di sinistra; ma le élite politiche, imprenditoriali, sindacali non hanno una strategia per proseguire lo sviluppo dopo gli anni del miracolo.

Fubini interpreta questo momento come una sorta di trappola del reddito medio: raggiunto quel livello, i motori di ieri non bastavano più per spingere il paese e in pochi hanno avuto una visione chiara di quelli del futuro. Nel frattempo arrivano i grandi shock petroliferi. L'Italia entra in una stagione di proteste sempre più violente, bombe, inflazione, distruzione di posti di lavoro nell'industria. E la politica ha una sola risposta a tutto: sempre più spesa pubblica. L'Italia uscirà da questa impasse, ma dalla porta sbagliata. Diretta al labirinto di stagnazione e recessioni degli ultimi decenni.

5. Alle origini del debito pubblico

Dopo la conquista dei diritti dei lavoratori nel 1969, l'Italia aveva bisogno di un sistema di welfare e di un sistema di istruzione più moderni. Aveva bisogno di superare il corporativismo ereditato dagli anni del fascismo nei primi decenni della Repubblica. E in effetti negli anni '70 si assiste a un tentativo di dare al paese un sistema di tutele adeguato, in particolare con le riforme guidate dal socialista Antonio Giolitti. Ma questo tentativo riformista rimane piuttosto isolato in un paese assorbito da altre emergenze e tentato dalle scorciatoie. I governi atlantisti imperniati sulla Democrazia cristiana erano impegnati a mantenere a tutti i costi il massimo possibile di pace sociale negli anni del terrorismo. Il Partito comunista fatica a risolvere l'ambiguità insita nel suo rapporto con l'Unione sovietica. Il risultato in politica economica è un trionfo dell'Italia delle piccole e grandi corporazioni, di uno statalismo dominato dall'interesse di partito e da politiche sociali che alimentano l'inflazione. Soprattutto sono gli anni del trionfo della spesa pubblica, a partire dalle "baby pensioni" con assegni pieni dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi. È in questi anni che si gettano le basi del debito pubblico destinato a frenare le due generazioni seguenti.

6. Classe dirigente cercasi. L'élite che la Repubblica non ha avuto

Alla base della salute di un paese sta l'esistenza di una classe dirigente capace di indicare la direzione dello sviluppo. Eppure l'élite non è mai il risultato di un processo spontaneo. Va costruita e coltivata, tenendo conto che essa è condizionata dalla storia, dall'amministrazione e dalla vicenda politica di una nazione. Ma qual è la situazione dell'Italia post-bellica? I segni distintivi di un'élite di qualità sono i grandi progetti di lungo termine di un paese, quelli che proseguono per molte generazioni: la strategia dell'educazione e quella delle nascite.

Federico Fubini muove dall'analisi dei dati statistici e osserva che il nostro paese, dopo anni di incessante crescita demografica, da ormai mezzo secolo registra una contrazione delle nascite quasi continua. Con ricadute sull'economia in termini di consumi, fatturato delle imprese e peso politico internazionale. Il confronto con gli altri paesi europei mostra come in Italia - caso quasi unico fra i grandi paesi d'Europa occidentale - le dinamiche demografiche non siano mai state pianificate né governate. Una causa di fondo è nella debolezza delle classi dirigenti capaci, che per essere tali avrebbero dovuto saper guardare oltre il breve termine.

7. Gli anni '80 fra "Milano da bere" e capitalismo di relazione

L'Italia craxiana, quella della "Milano da bere", tira un sospiro di sollievo e ritrova una certa sicurezza di sé dopo gli anni di piombo. Si crea dopo il 1980 un'atmosfera che lo stesso Romano Prodi, allora chiamato alla direzione dell'IRI, definisce di "una meravigliosa anarchia". Meravigliosa e un po' miope: pochi in Italia si accorgono che il contesto esterno stava ancora una volta rapidamente cambiando. Da una parte la svolta liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, dall'altra la "rivoluzione europea" che si rimette in moto dopo un lungo silenzio.

In Italia i riflessi di questi cambiamenti arrivano in ritardo ma, anche nella sua bolla di relativa euforia alimentata dal debito, il paese cerca di avviare comunque un processo di svecchiamento delle proprie istituzioni economiche. Ma la svolta resta superficiale, dà solo una patina di modernità. La classe politica non è pronta a rimettere in discussione le proprie prerogative: la corruzione, il poter piazzare i propri uomini nelle aziende di Stato, le clientele. E il debito pubblico continua a crescere in attesa di una resa dei conti che fino all'ultimo in pochi vedono arrivare.

8. Finisce la Guerra fredda e l'Italia celebra il "sorpasso"

Il 1987 è l'anno del "sorpasso", nome cinematografico del momento in cui l'economia italiana ha un fatturato di poco superiore a quello della Gran Bretagna thatcheriana. In realtà l'Italia si era limitata a calcolare più il nero e il sommerso nel suo prodotto interno lordo, quasi fosse un punto di forza del paese. Proprio in quell'anno il 48,6% delle famiglie italiane ha un "capofamiglia" (come si diceva ancora a quel tempo) con al massimo la quinta elementare come titolo di studio. Ma allora i risparmiatori italiani pensavano di potersi arricchire non con l'istruzione, lo studio, la ricerca, bensì con la magnifica illusione dei rendimenti a doppia cifra sui titoli di Stato. Illusione doppia, perché in pochissimi capivano che l'inflazione si stava portando via gran parte dei quei guadagni sulla carta e perché comunque l'Italia era su una china che non poteva continuare.

La posizione di rendita, garantita dalla Guerra fredda all'intera classe politica, sta per essere spazzata via. La globalizzazione nascente e l'integrazione europea stanno per abbattere le barriere alla circolazione di tutto, compresi i capitali. E l'Italia arriva a questa svolta con un'infrastruttura debolissima, come emerge da un episodio degno di una commedia di Alberto Sordi: quel venerdì di fine luglio del 1985 in cui la lira crollò sul dollaro del 18% in pochi minuti dopo un incredibile balletto degli equivoci attorno a un debito dell'Eni da rimborsare.

9. Prima Repubblica spalle al muro: la resa dei conti del 1992

Ci sono momenti in cui la materia storica assume una densità altissima. Tutto si concentra in poco tempo e i nodi economici, politici, finanziari, morali vengono improvvisamente al pettine allo stesso tempo. Il 1992 per l'Italia è uno di quei momenti. La Corte di cassazione sancisce per la prima volta che Cosa Nostra è un'organizzazione verticale che contende il potere allo Stato. La mafia risponderà uccidendo i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mario Chiesa viene arrestato al Pio Albergo Trivulzio mentre cerca di far sparire una tangente nello scarico del bagno. È la scintilla di Tangentopoli.

Intanto l'equilibrio finanziario, che non poteva durare, salta nell'estate di quell'anno: l'Italia arriva a un passo dal default nel pieno di una tempesta monetaria europea. Dovrà svalutare drammaticamente, mentre gli italiani di mettono in coda per ritirare i loro risparmi dalle banche nel timore di un nuovo prelievo forzoso dopo quello deciso dal governo di Giuliano Amato proprio nel luglio del '92. La prima Repubblica esce ingloriosamente di scena. Ma noi italiani abbiamo fatto tesoro di quell'esperienza?

10. La profezia di Giacomo Leopardi sull'Italia di oggi

Nel 1824, a soli 26 anni, Giacomo Leopardi scrive un breve saggio: "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani". Le parole del poeta suonano profetiche, per molti aspetti: "Le classi superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni (...). La nazione italiana unisce la vivacità naturale all'indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curare granché della stima e dei riguardi altrui". In sostanza, ciascuno si comporta in maniera profondamente individualistica. Troppa gente pensa di potersela cavare anche se il sistema è crivellato dai piccoli opportunismi e dalla ricerca delle piccole posizioni di rendita, dalle corporazioni chiuse e organizzate a spese della collettività.

Quali sono le conseguenze, se Leopardi ci aveva visto giusto? In parte, sono in quello che Tullio De Mauro definisce il più grave peccato commesso dall'élite del paese dall'unificazione ai giorni nostri: il disinteresse per l'istruzione degli italiani, che impedirà in un secolo e mezzo di recuperare il ritardo educativo iniziale. Nel nostro tempo queste contraddizioni finiranno per risolversi solo grazie una sorta di valvola di sicurezza, che distingue l'Italia da qualunque democrazia occidentale: quando i politici e i partiti non riescono più ad affrontare i problemi, fuggono dalle responsabilità e cedono le chiavi del governo ai "tecnici". Questi ultimi servono il paese al meglio. Ma restano circondati, tutto intorno, da un establishment cinico come quello intuito da Leopardi.