L'ispirazione di chiamarlo Australopithecus
Cento anni fa si aprivano le porte dell’Africa per la ricerca sulle nostre origini. Questa storia inizia con una scatola di legno. Quella che il giovane anatomista Raymond Dart si vide consegnare nella sua abitazione di Johannesburg, in Sudafrica, e che doveva contenere una raccolta di reperti fossili provenienti dalla cava di Taung, 400 km più a sud-ovest. Era un sabato pomeriggio del 1924. Rovistò nella cassa e saltò fuori un piccolo “cervello” di pietra. Era cioè l’impronta della forma interna di un cranio di scimmia, composto da sabbia calcarea consolidata al suo interno. Cercò ancora nella scatola e vi trovò un blocco di pietra con una concavità nella quale il calco endocranico si posizionava perfettamente. Nei mesi successivi, si impegnò a ripulire il probabile contenuto fossile nascosto nella pietra. Ne emerse lo scheletro facciale, con tanto di mandibola e denti, di una creatura sconosciuta alla scienza. L’anno successivo, pubblicò infine un breve articolo su “Nature”, nel quale descriveva una forma estinta di primate antropomorfo, con alcune caratteristiche – fra cui la probabile postura eretta e la conseguente locomozione bipede – che consentivano di collocare quella creatura all’alba dell’evoluzione umana. Chiamò la sua scoperta Australopithecus africanus e, così facendo, aprì le porte dell’Africa alla ricerca delle nostre remote origini. Era il 1925, esattamente cento anni fa.
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